L’isola del crollo – Ina Valcanova

L’isola del crollo è un libro che parla di crisi personali declinate al femminile e lo fa in modo originale e non per tutti i gusti. Ci sono due donne: Asja e Radost. Asja è bella, molto sbadata, ha un divorzio alle spalle, un nuovo compagno e un figlio dal precedente matrimonio. Radost è una donna con tante ossessioni, in cerca di equilibrio, perso a causa delle ferite provenienti dal passato, che prova a curare studiando astrologia a livelli professionali e leggendo temi natali.

Le due donne sono colleghe nello stesso ufficio. Tra loro c’è stata una breve interazione anni addietro, che mentre per Asja non ha significato nulla, tanto che nemmeno la ricorda, per Radost è stato l’inizio di un grosso momento di cambiamento. Radost, studiando il tema natale di Asja – a sua insaputa – comprende che la donna ha bisogno di aiuto, che sta per entrare in una fase difficile della sua vita e le piacerebber poter accorciare le distanze e aiutarla, anche se non sa come.

Il libro segue i due punti di vista, evidenziati anche da due diversi font e segue le vicissitudini delle due donne alle prese con il racconto dei loro rispettivi momenti di crisi.

La figura di Radost mi è parecchio piaciuta in quanto io stessa sono studiosa di astrologia e ho ritrovato nei discorsi di questo personaggio tante riflessioni che spesso faccio in merito alla materia astrologica e al suo utilizzo per la vita quotidiana.

Quello di cui mi sono resa conto leggendo, tuttavia, è che un lettore che non ha mai approcciato l’astrologia in maniera seria (dunque al di là del mero oroscopo dei giornali) non avrà modo di capire appieno il senso di questo romanzo e il messaggio che l’autrice – certamente astrologa a sua volta – voleva regalare alle sue protagoniste. Per questo, penso che il romanzo possa essere approcciabile nella sua interezza solo da coloro che hanno studiato astrologia a livelli professionali. Altrimenti le numerose riflessioni di Radost risulteranno delle chiacchiere senza senso. Mi chiedo se l’autrice si sia soffermata a pensare a questo mentre lo scriveva, o se forse nel suo ambiente (Ina Valcanova è scrittrice bulgara) siano tutti così interessati all’astrologia come evidentemente lo è lei.

Comunque, nel 2016 ha vinto, con questo libro, l’EU Prize for Literature, segno che è stato capito a prescindere dalla conoscenza astrologica del lettore. Leggendo le recensioni freddine a questo romanzo, qui su GR, non mi tolgo dalla testa l’idea che non sia una lettura facile nè adatta a tutti.

Notre Dames de Paris – Victor Hugo

Quando parliamo di classici, c’è sempre questa sensazione di riverenza che ci costringe a non esprimerci negativamente sui libri, come se il solo fatto di aver attraversato i secoli indenni gli conferisse un’aura di invincibilità e di intoccabilità.

Ebbene, per me non è così. Quando un classico non mi piace, io lo dico e la cosa per me importante è saperne spiegare nel dettaglio le cause, per offire a chi mi ascolta o legge la possibilità di riflettere sul fatto che tutto ciò che leggiamo va sempre guardato con occhio critico e mai accettato passivamente. I romanzi classici non devono essere da meno.

Eppure, ho davvero amato il noto romanzo di Hugo, quindi perché ho voluto iniziare la recensione con il discorso sulla critica ai romanzi classici? Per un semplice motivo: per quanto io mi sia approcciata alla lettura di un romanzo famosissimo e indubitabilmente affascinante, non posso negare che – secondo i criteri editoriali odierni – esso si presenti come ostico e di difficile leggibilità. Ci vuol coraggio a dirmi che i romanzi russi, miei adorati, sono pesanti. Per me, la pesantezza vera e propria è sempre stata nei classici francesi e in questo modo roboante di presentarsi al lettore con la loro presunzione, come tanti piccoli napoleoni in fila pronti a sbaragliare i nemici letterari (ma sappiamo bene chi ha sconfitto Napoleone).

Se io non avessi saputo che questo romanzo era di Hugo, lo avrei abbandonato dopo dieci pagine. Solo il clamore e la sua celebrità mi hanno consentito di spingermi a proseguire, e per carità, ho fatto la cosa migliore che potessi. Capite bene che un romanzo scritto oggi con questi criteri non sarebbe mai pubblicato nè preso in considerazione da una casa editrice sana di mente. A torto, perché Notre Dame ha una storia affascinante e avvincente, nota a tutti e di cui ho poco da dire. Ma è scritto in maniera tortuosa e complessa e ha comportato nella mia esperienza di lettura più di un bestemmione!

Prima di tutto, ha un incipit lentissimo e astruso, che parte con una roboante descrizione degli ambienti parigini, senza far intravedere minimamente al lettore dove si vada a parare. Per pagine e pagine.
In secondo luogo, la trama avvincentissima è spesso e volentieri interrotta da digressioni che vengono direttamente dalla mente dello scrittore, che non possono essere nemmeno considerati “spiegoni”, ma veri e propri inserti di natura storica e sociologica inerenti la città di Parigi, confrontata tra Medioevo – teatro della storia – e Ottocento – in cui Hugo visse – che per quanto siano pregiatissimi, hanno il difetto intollerabile di disturbare la lettura e lasciarti col fiato sospeso nei momenti peggiori.
Questo si configura quindi solo in parte come un romanzo, mentre per buona parte è un saggio di natura antropologica e storica sulle usanze parigini e francesi, con molte riflessioni di carattere letterario – come quella apprezzabile sulla stampa, per esempio – o sulla nascita della città di Parigi da piccolo isolotto a grande città popolosa. Sicuramente son tutti inserti interessanti, presi singolarmente. Ma mentre andavano a interrompere la trama, mi hanno causato veramente tanto fastidio.
In aggiunta a tutto questo, prima di approdare a questa traduzione – Feltrinelli, la cui copia ha un gargoyle rosso in copertina – ho provato diverse altre traduzioni che mi son sembrate antiquate e troppo contorte. Per come è scritto questo romanzo, ritengo necessario avvalersi di una traduzione il più moderna e lineare possibile, invece. Con buona pace della prosa di Hugo che tanto potrebbe essere apprezzata solo se lo leggete in francese (operazione per cui onestamente non vi invidio).

A parte le questioni stilistiche, frutto di un’epoca in cui si scriveva diversamente, non è un mistero, sulla storia non ho davvero nulla da aggiungere rispetto a quanto detto da questo pianeta nei precedenti anni: Hugo racconta dannatamente bene, i suoi personaggi sono vivi, la sua comicità è pari alla tragedia che si respira nella Parigi del Gobbo e di Esmeralda. Ho amato il personaggio di Gringoire e perso una lacrima per quello di Quasimodo, indubitabilmente il meglio descritto e caratterizzato di tutti. Ho odiato potentemente quel maniaco bastardo di Frollo e alzato gli occhi al cielo per l’imbecillità di Phoebus. Ho sognato assieme ad Esmeralda e sperato sino alla fine in un finale degno per lei… Ma Hugo, per quanto sia in grado di cavalcare la comicità a livelli incredibili, conosce bene la vita e le sue insidie, la sua tragica ironia, e non risparmia niente al lettore e ai suoi fortissimi personaggi.

Ho avvertito come preponderante l’idea che l’inseguire i nostri desideri, di cui spesso non sappiamo nemmeno spiegarci la natura, sia la nostra gioia e la nostra condanna. Questo fanno i personaggi di Hugo, che si muovono su una scena roteante di eventi pronti a mettere in crisi tutte le loro certezze.

Il Porto di Toledo – Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese è stata una scrittrice italiana del Novecento, vissuta tra il 1914 e il 1998. In questo arco di tempo, Ortese ha scritto moltissimi racconti, più di 200, un buon numero di romanzi e moltissimi articoli per i giornali. Di tutta questa produzione, alla memoria dei più fortunati forse resta la conoscenza del Mare non Bagna Napoli, libro del quale si antologizza spesso Un paio di occhiali, racconto tratto da questa raccolta.

E poi il silenzio.

Prendo e sfoglio le letterature che ho a casa, conservate negli anni di scuola e non trovo quasi nulla di lei. Il Baldi ne tace, nella sua bella carrellata di soli autori uomini, fatta eccezione per Elsa Morante e Sibilla Aleramo, ovviamente ricondotte a Dino Campana e Moravia.

Trovo qualcosa nella Scrittura e Interpretazione, freschissima antologia a cura di Luperini che credo sia adottata oggi nel liceo. Un breve trafiletto sciorina i titoli di alcune opere e la inserisce nel genere letterario del realismo magico assieme a Bontempelli. Una mia iscritta mi fa sapere che in un vecchio manuale di Luperini appariva però un invito alla lettura del Mare non bagna Napoli. Ma certo è che quando vi faccio questo nome, nulla vi viene in mente.

Vi dico Pirandello: penserete subito a maschere, umorismo, teatro; vi dico Dannunzio e penserete al Piacere, alla Duse, al rapporto con Mussolini, all’Alcyone; vi dico Montale, penserete subito agli Ossi di seppia, al Male di vivere, a Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, etc… E potrei andare avanti.

Ma quali sono i motivi della sua assenza dal canone? Quali i motivi per cui chi va a compilare le antologie da portare a scuola ancora oggi nel 2022 non trova interessante menzionare questa scrittrice? Così come altre? Perché la nostra memoria residua culturale italiana si fonda unicamente su scrittori di sesso maschile? La risposta, per quanto riguarda questa scrittrice, io credo risieda negli eventi della sua biografia e nel suo rapporto con gli intellettuali del suo tempo. Questo però non giustifica chi OGGI prepara le antologie quando la esclude.

Io vi parlo di Anna Maria Ortese, così come l’ho vissuta in questi mesi e per quella che è la mia percezione di lei. Perché io mi sono innamorata di lei e quando si ama qualcuno, se ne vuol parlare a tutti e raccontare quanto questo amore renda felici.

Questa donna è stata una scrittrice dalla vita molto difficile. Costante, come una mannaia sul suo collo, la sua solitudine e il suo disagio economico, la sua perenne ricerca di una sistemazione domestica per poter trovare la pace per scrivere, che era la cosa che sognava di più fare al mondo. Dal sud al nord d’Italia, passando per Parigi e anche Mosca, Ortese non si è mai fermata e ha sempre continuato a scrivere anche a fronte delle tante delusioni avute dal suo lavoro. Ortese piaceva agli editori, che spesso lei lasciava in attesa febbrile di opere promesse, ma non piaceva ai lettori. Non vendeva, o vendeva poco e i suoi libri restavano invenduti o finivano al macero.

Quindi, da un lato, doveva scrivere di più per guadagnare, dall’altro non riusciva a scrivere di più o a farsi piacere ciò che scriveva, perché non trovava mai la serenità interiore per dedicarsi alla sua attività. Costretta a chiedere soldi e ospitalità ad amici scrittori, a cambiare case in affitto, tra catapecchie pericolanti, rumori di grandi metropoli che le toglievano il sonno, come Milano, in affitto assieme alla sorella a Rapallo, dove concluse i suoi giorni… E nel cuore il desiderio di rivivere una Napoli, sua città del cuore, da cui si era sentita respinta.

Per giunta, quando scrive il Mare non bagna Napoli, tutto cambia per lei: gli intellettuali napoletani la ostracizzano per aver dipinto nel suo reportage una Napoli disagiata post guerra e una rappresentazione troppo cruda degli stessi artisti, come La Capria.

Scrive l’Iguana, ma il romanzo non viene capito.

Nel 1967 vince il premio Strega con Poveri e Semplici, romanzo di formazione che ovviamente non le piace affatto e che, pur essendo di altissimo livello rispetto a molti Strega odierni, per lei non era rappresentativo del suo lavoro, anzi rappresentava semmai un appiattimento del suo stile di scrittura.

È degli ultimi anni, un romanzo che ebbe successo Il cardillo addolorato.

Uno solo per lei è il pallino, il libo della vita, quello in cui da tutta sé stessa e al quale dedica un lavoro febbrile e lunghissimo di scrittura e rielaborazione. Ed è il libro con cui io l’ho conosciuta e su cui mi soffermo: il Porto di Toledo. È qui che io l’ho scoperta, qui che arriva la mia esperienza di lettura.

Entro al Mercatone e trovo, tra i libri usati, questo Adelphi di un azzurro intenso, dalla copertina misteriosa e al contempo preziosa… Costa 4 euro, non posso lasciarlo lì, gli Adelphi lo sappiamo tutti che costano un rene. E l’ho già dato per Vita e Destino.

È un libro di quasi 600 pagine che inizio a leggere ad assoluta scatola chiusa, senza più posarlo per il mese successivo, e che inizia così:


“Sono figlia di nessuno. Nel senso che la società, quando io nacqui non c’era, o non c’era per tutti I figli dell’uomo. E nascendo senza società o bontà io stessa, in certo senso non nacqui nemmeno, tutto ciò che vidi e seppi fu illusorio, come i sogni che all’alba svaniscono, e così fu per quelli che mi stavano intorno.”

Mi addentro nella storia incredibile di una ragazzina di nome Damasa Figuera, detta Masa o anche Asa, che racconta di essere a volte donna, a volte uomo. Damasa ha una vita interiore ricchissima e tutto quello che tocca col suo sguardo si trasforma in narrazione. Il suo sogno è quello di scoprire i segreti e le regole di quella che lei chiama Espressività: la scrittura. Vuole imparare a scrivere, è desiderosa di trasformare la sua vita in scrittura e di vivere per essa.

Non sapendo io nulla della scrittrice all’epoca, inizio a farmi non poche domande. Cosa sto leggendo esattamente? È chiaro che questo romanzo non è ambientato in un mondo reale. Si chiama Toledo, ma palesemente è ambientato nel sud Italia, i personaggi hanno strani nomi onomatopeici. Lei Asa o Masa, i genitori Apo e Apa, il fratello Raissa, la sorella Juana e il fratello Albe. C’è un uomo chiamato Maestro D’armi, il quale le insegna il mestiere di scrittura tramite uno scambio epistolare emozionante. Il grande amore, Lemano detto il Finlandese, figura tragica e crudele di questa storia, un uomo ribelle, cinico che si avventa su Damasa tra apparizioni fugaci e sparizioni sofferte. Eppure, non è un romanzo reale, non ci sono coordinate spazio-temporali: le uniche coordinate presenti sono quelle del cuore di questa bambina che racconta la sua infanzia e la drammatica perdita di essa a causa dell’arrivo della Tigre che divorerà tutto e porterà chi sopravvive nell’Era Successiva.

Inizio velatamente a farmi una idea di cosa stia davvero succedendo, di cosa sia la Tigre, di chi sia questo El Rey debolissimo e questo Don Juan appeso per i piedi affinchè i corvi possano divorarlo, ma non ne sono certa, i riferimenti storici – ripeto – sono assenti.

È la storia di Damasa. Damasa potrebbe essere chiunque, potrebbe essere personaggio fittizio, ma io sento che non lo è. Sento che nella narrazione fantastica e visionaria, la narratrice che è la stessa Damasa, sta lasciando a lettore più che una storia inventata. È una storia vera, ci sono cose vere lì sotto, c’è vero dolore. E con questi interrogativi, viaggio per quasi seicento pagine con lei, scoprendo non solo una storia di una poesia incredibile, delicata e struggente, ma soprattutto e qui arriva l’elemento per me importante – scritta in modo inaudito. Non ho mai letto niente di simile. Non ho mai letto nessuno usare l’italiano in questo modo.

Ci sono bravissimi scrittori nel Novecento che hanno fatto dell’italiano un laboratorio di esperimenti magistrali, come Gadda.

Ma qui siamo su un altro pianeta, un’altra dimensione. Il Porto di Toledo è scritto in modo sperimentale, in un italiano che spesso si priva volontariamente di regole sintattiche per cedere alla bellezza dei suoni. Più volte ho pensato: questo libro merita un audiolibro registrato da una bella voce perché non andrebbe solo letto, ma ascoltato.

Quando arrivo alla fine della storia, ormai profondamente colpita, con classico lutto del lettore che ci colpisce quando perdiamo il libro amato per giorni e giorni, mi metto in viaggio per sapere cosa c’è dietro questa storia.

Come prevedibile, Damasa è Anna Maria Ortese stessa, da ragazzina.

Il suo intento originario, quando prese a elaborare IPDT era quello di raccogliere i racconti più antichi, quelli dell’adolescenza, contenuti nella prima sezione di Angelici Dolori e le poesie, per creare una sezione di commenti inframezzati, per intenderci come fece Dante Alighieri con la Vita Nuova.

Si serve anche di un diario giovanile scritto prima di capire che sarebbe diventata scrittrice, quindi molto puro e libero da ogni vincolo letterario. Ma scrivendo, a poco a poco, il commento prende il sopravvento sui racconti e le liriche e la vicenda che ne emerge si sovrappone lentamente alla reale vicenda della sua infanzia dove, come ho detto, molti eventi sono accaduti, riscrivendo il passato con gli occhi della Ortese del futuro, in un dialogo continuo tra Anna e Damasa, che naturalmente si incontrano nelle memorie di questi ricordi toledani.

Qui Anna cede al realismo e si lascia prendere dall’immaginazione e dalla fantasia che rivive il tutto rendendo la realtà indistinguibile da un sogno.

Anna Maria Ortese odiava la realtà. Ne era offesa, ci dice lei, e non è che bruttura la realtà che alla fine non è nemmeno destinata a rimanere, ma a scomparire. Le cose reali si deteriorano, periscono, muoiono.

Anna Maria Ortese sceglie la memoria e la vivifica con l’immaginazione per poter affrontare una materia per lei dolorosissima, la perdita dell’infanzia, la morte del fratello, la guerra – la tigre – che causa la distruzione della sua casa.

La sua opera è una trasfigurazione fantastica della realtà rappresentata con reticolato simbolico, ci spiega il suo più famoso biografo, Luca Clerici.

Come fa Ortese a rievocare la memoria? Con i sensi. Tutte le scene sono prima mostrate al lettore con vista, olfatto, tatto, udito; poi con una riscrittura dei luoghi che sono tutti dei falsi geografici: Toledo, Via Toledo, Quartieri Spagnoli, Napoli; l’uso di una lingua che non esiste, uno spagnolese potremmo dire, dove parole come barrio, quiosco, despachos assumono significati simbolici per la scrittrice; una sintassi spesso franta e sperimentale in cui i personaggi dialoganti devono cedere al potere del silenzio e della paura di parlare, e quindi avremo dialoghi interrotti, parole non dette e solo accennate, suoni onomatopeici; così si esplica l’identità di Damasa Anna, frammentata e non compatta, come unica esperienza possibile di vita.

Sogno di Damasa è l’espressività, scrivere. Damasa però non realizza questo sogno. E Anna non la vede diversamente – in Corpo Celeste ci dice di aver fallito come scrittrice. Non ha fallito naturalmente, ma sin tanto che era in vita questa è purtroppo stata la sua percezione. Con questo romanzo Anna riuscì a essere avanguardistica, senza portare con sé i dettami tipici delle avanguardie – violenza, rifiuto della tradizione classica, rifiuto del recupero dell’umanità perduta,

Ed è per questo che mi sento di dire, senza vergogna, che IPDT è uno dei più bei libri del secondo Novecento italiano, la cui colpa è stata quella di essere pubblicato in un’epoca in cui la letteratura chiedeva piena adesione a quella realtà violenta che per Ortese era così offensiva e indigesta. E secondo me, non c’è niente di peggio per uno scrittore che non venire mai a sapere quanto la sua opera, in secoli futuri, potrà essere apprezzata, perché io credo che nella nostra condizione odierna la realtà sia anche ben peggiore di quella che visse lei.

Per questo, stavolta c’è molto bisogno di un’evasione che non sia fine a sé stessa, ma che ci porti a considerare il nostro mondo interiore allo stesso livello di quello esteriore, perché il rischio che abbiamo oggi è quello di perderci come individui, cancellati da una vita che sta diventando sempre più complessa e sempre più intricata.

Ortese sapeva, con la sua scrittura, come rallentare il tempo, portarlo a una dimensione intima e individuale e soprattutto sapeva come fare innamorare il lettore con le sue parole di mondi trasfigurati dove un qualsiasi oggetto, il muro, la casa, la stanza, le piume, la luna, o anche animali, come il puma, l’iguana, il gattino Lucino di In sonno e in veglia possono diventare oggetto di riflessione per mondi nuovi, mondi da sogno.

Leggendo Ortese mi sono ricordata di quelle sensazioni che provai quando lessi da bambina, in un misto di euforia e mistero del “che cosa sta succedendo qui?”, la Bella estate di Ray Bradbury, uno dei pochi romanzi che sento di poter accostare ai suoi.

I mondi e i personaggi di Laini Taylor

Oggi voglio raccontarvi la mia esperienza di lettura con i romanzi di Laini Taylor. In giro per la rete troverete molte altre recensioni dettagliate, io invece vorrei soffermarmi più sull’incredibile qualità delle sue opere, che hanno vibrato nel mio cuore, come poche altre letture.

Laini Taylor è prima di tutto una artista, visionaria e fortemente sognatrice, non meno dei suoi personaggi, in effetti. È stata capace di creare mondi fantasy diversi dai soliti canoni noti. Nei suoi romanzi, tutto è inventato, tutto nasce dalla pura immaginazione e anche materiale tipico degli young adult viene manipolato da lei in maniera sempre originale. Le figure che popolano i suoi romanzi sono tratte da bestiari medievali, orientali, spunti di mitologia egizia o indiana, passando da Gilgamesh al libro dei morti che si allontanano per fattezze dalle tipiche figure di questo genere letterario. Non troveremo qui elfi, nani e draghi, ma immagini angeliche di profondo simbolismo, animali antropomorfi, spiriti e fantasmi di ascendenza divina, votati non al bene del mondo creato, ma alla loro distruzione o sfruttamento. Ma la costruzione dei suoi mondi, così originale, è solo il primo livello di esplorazione delle sue opere che è possibile osservare.

Ho letto tutto d’un fiato la trilogia della Chimera di Praga. Mi mettevo a letto, la sera, con i suoi libri e mi perdevo in un mondo di immaginazione e di intensità emotiva che mi hanno aiutata a dormire in un periodo non proprio sereno. Ho seguito la storia di Karou come se la conoscessi e il desiderio di disegnarla, ritrarla è stato da subito fortissimo proprio perché Laini Taylor scrive come se stesse dipingendo, mostrando personaggi e ambienti con colori e forme iridescenti.

Ho poi proseguito subito con la duologia del Sognatore, che si aggancia alla trilogia precedente in quanto parti di uno stesso universo collegato. E anche qui ho ritrovato quest’atmosfera onirica, questi personaggi così vivi.

Ciò che più mi ha colpito delle sue opere, e che mi muove a parlarne, è lo splendido messaggio che le sue storie raccontano. Nella Chimera di Praga la protagonista è una ragazza dal temperamento artistico, molto autonoma e indipendente, ma che di fatto ha un vuoto dentro sé che non le consente di vedere le proprie radici e quindi di esprimere al meglio il proprio potenziale. Per di più, ha una amica, Zuzana, che l’adora e che continua ad apprezzarla anche se di Karou conosce poco e niente. Zuzana si rende conto che Karou è diversa, tormentata, che ha una seconda vita di cui si vergogna a parlare, che esiste in lei un lato oscuro che non può capire, eppure decide di restarle accanto lo stesso, apprezzandola per la sua generosità e la sua forza d’animo, forse proprio anche per quella solitudine dell’essere che contraddistingue questa splendida eroina dai capelli blu.

Questa opportunità di esprimere il proprio potenziale, il proprio destino di vita, le arriva non come un dono sceso dal cielo, ma come conseguenza di una profonda crisi personale e di valori, una grossa perdita a livello emotivo e sentimentale. Karou scopre la verità su sé stessa e su cosa sia in grado di fare sperimentando perdita, dolore e sacrificio. Non è un personaggio passivo, non si siede ad aspettare il destino né si poggia al protagonista maschile, Akiva, il quale rappresenta sempre la sua degna controparte senza mai affossarla ma accompagnandosi a lei in un ritmo, in una danza di uno splendido e tormentato amore. Karou è risoluta, anche attraverso azioni di violenza subite e minacce psicologiche. Non si arrende mai al peso dei ricordi che la tirano indietro in un mondo ormai scomparso, ma riesce sempre a vincerli e ad avere un occhio puntato sul futuro e sul futuro dei propri cari. Mai un lamento, mai una lacrima di troppo, mai una volta si ferma a poggiare il capo sulla spalla d’altri, perdendo il controllo delle proprie decisioni.

Karou si sacrifica per gli amici, per la sua gente, non si risparmia mai nella sua ricerca di verità e di pace, è una eroina giovane e piena di valori che si irradiano nelle sue azioni nel corso di tutta la storia e la ragazza che conosciamo nelle prime pagine non è quella che ritroviamo alla fine della trilogia: c’è stato un cambiamento, una trasformazione nella sua psiche, è un personaggio completo, reale, quasi fatto di carne e sangue per quanto mi riguarda, e che ho sentito molto vicino.

Anche nel Sognatore, troviamo un personaggio molto simile, Lazlo Strange. Lui, ancor più di Karou, è inconsapevole delle sue doti, del suo potenziale. Mentre Karou aveva trovato nel mondo terreno il modo di veicolare la sua immaginazione e i suoi ricordi sotto forma di arte e col disegno, Lazlo si trova invece completamente affossato da una società che non solo non lo aiuta a risplendere, ma che lo sottovaluta. Lazlo costruisce un mondo coi suoi sogni, sino a poterlo solcare e viaggiare, e infonde tutta la sua conoscenza in un libro che viene rubato e maltrattato, usato dal suo rivale, o meglio doppio, Thyon Nero, l’alchimista privo di fantasia. Lazlo è un sognatore, non ha in sé le doti per poter realizzare il suo sogno, perché lui per primo non crede davvero nel suo progetto, schiacciato com’è da una realtà che lo umilia, lo fa sentire privo di valore, nessuno. Ma quando Thyon riesce, col suo libro, a fare ciò che Lazlo non ha mai osato fare, allora il destino del ragazzo cambia e cambia per il meglio. Inizia finalmente a prendere forma il percorso del suo destino.

Questa cosa mi ha fatto molto riflettere sul fatto che le persone che si perdono nei sogni sono poco in grado di realizzarsi, e necessitano di qualcuno che si comporti in modo più spregiudicato e concreto di loro. In tal senso, il rapporto tra Lazlo e Thyon si configura come fondamentale: ognuno di loro ha qualcosa che l’altro non ha, e nella loro unione contrastata riescono a dare forma l’uno al destino dell’altro.

In questa duologia, oltre a cavalcare come nella trilogia precedente, l’analisi di personaggi in scoperta del loro io, LT approfondisce il mistero dell’amore in maniera davvero profondissima: Lazlo e Sarai quasi non si toccano, ma possono guardarsi per quello che sono all’interno dei loro sogni e dei loro incubi. L’amore sgorga da una parte più profonda della loro mente e delle loro anime, e per questo diventa un legame da subito indissolubile e forte a tal punto da trascinare la storia verso vette irraggiungibili.

In entrambe le storie, l’amore non è mai fine a sé stesso, non è mai qualcosa che resta in disparte dal resto della trama, qualcosa di scollegato, di ornamentale, di evitabile. L’amore ha sempre un senso che va oltre l’umano e dona la forza di giustificare scelte collettive, talvolta dettate da impulsività, da volontà di superare barriere sociali, leggi, ordini e taboo che altrimenti non si avrebbe avuto il coraggio di superare. L’amore sempre unisce due individui diversi che fanno parte di collettività distinte, che altrimenti non avrebbero saputo trovare un punto di incontro fatto di pace e di equilibrio.

L’amore è vero perché unisce, anche quando fa soffrire, anche quando si abbatte sotto i colpi della vita e del destino, e i personaggi della Taylor scoprono questo sentimento mai solo con gioia artificiale: questo non sarebbe reale. I personaggi vivono l’amore con lo stesso patimento, la stessa angoscia e speranza di ciascuno di noi, senza mai la sicurezza di un futuro certo e determinato. Eppure, così muovendosi, tra dubbi e paure, cambiano il corso della propria vita e di quelli che li circondano, per sempre.

Resto quindi in attesa del nuovo romanzo di Laini Taylor che, come è spiegato di striscio nella Musa degli Incubi, sarà ancora una volta ambientato nel mondo di sua creazione, ispirato dal caos e dalla ribellione di personaggi primordiali e violenti che – durante un loro viaggio – squarciarono i veli dell’universo andando a creare realtà prima non esistenti in diversi mondi sconosciuti.

Io sono vivo e tu non mi senti – Daniel Arsand

35061283. sy475 Dopo anni di raccolta e di letture che hanno per tema principale la Seconda Guerra Mondiale, i campi di concentramento, le persecuzioni razziali e tutte le tematiche difficili da digerire che ne conseguono, mi sono fatta una certa idea di quali libri – in questo settore – considerare validi, quali semplicemente fiction ben scritta, quali invece evitabili perché non aggiungono niente ai discorsi di cui sopra.

Intanto, comincio col dire che importante – nel merito di certe tematiche – è il background dello scrittore. In questo caso non ci troviamo dinanzi a una persona che ha vissuto l’orrore dei campi di sterminio, quindi il romanzo è fiction fatta e finita. Si scopre però, solo a fine libro, che lo scrittore ha fatto riferimento a opere biografiche di sopravvissuti ai campi, indirizzando il lettore al ben più noto libro “Gli uomini col triangolo rosa”, che è stato scritto realmente da un sopravvissuto omosessuale.

Guardando alle altre opere di Arsand, troviamo numerose storie d’amore a tematica omosessuale, ambientate in varie situazioni storiche e sociali, col tema ricorrente dell’amore gay come scandalo nella società in cui i protagonisti vivono. Il romanzo che sto recensendo ripropone esattamente il medesimo schema degli altri. In più, aggiunge alla cornice del protagonista, gli orrori del campo di concentramento di Buchenwald e un bagaglio di orrende memorie collezionate in quattro anni di prigionia.

Il protagonista, Klaus, torna a casa a Lipsia, la sua Germania – in quanto egli è tedesco, MA gay, e quindi comunque fuorilegge per lo Stato Tedesco – e trova l’accoglienza gelida e imbarazzata della sua famiglia che se ne era fregata di lui, lo aveva già dato per morto e che più che aiutarlo a ritrovarsi in un ambiente caloroso, se ne vergognano perché gay. Di qui, Klaus decide di affrontare la vita e di ricostruirsi da zero, in una lotta perpetua contro i suoi ricordi tenebrosi di morte e violenze subite.

Il romanzo, di per sé, è carino, rapido, godibile. Sembra a tratti di leggere un riassunto poetico e più realistico di A little life della Yanagihara (se lo avete amato, questo vi potrà piacere), e ne ho apprezzato la lettura. Però, si configura secondo i miei parametri in quella serie di romanzi fiction ambientati in quell’epoca e quelle circostanze che non riesce a superare il suo statuto di fiction. Ottima lettura per chi ama leggere storie ambientate in quell’epoca, per chi cerca un romanzo a tema LGBT, ma per chi – come la sottoscritta – è in cerca di testimonianze più vive e con una analisi più intensa dei rapporti sociali, della macchina della guerra, del lato oscuro della guerra, risulta inevitabilmente uno dei tanti romanzi disponibili sul mercato che, dopo averne letti due o tre, non si differenziano più dagli altri.

Forse è solo una mia opinione, come tale discutibile al confronto con le altre, ma gli argomenti di guerra e campi di concentramento sono molto più vividi e concreti quando a scriverne è qualcuno che ci è passato, o qualcuno che è riuscito a fare notevoli ricerche in merito, che ha donato quasi la propria vita allo studio dell’argomento. Penso, nel primo caso, ovviamente a Levi ma soprattutto a Kuznekov – e al suo immenso meraviglioso Babij Jar (per me in cima tra tutti quelli letti sino a ora) o a Katia Petrovskaja che, pur non avendo vissuto sulla sua pelle Olocausto e guerra, ha comunque portato avanti una ricerca meravigliosa in ambito genealogico, scoprendo cosa ne era stato dei suoi parenti polacchi all’alba dello sterminio di Babij Jar.

In parole povere, se si vuole si può usare l’argomento storico come sfondo e background ideali per costruire un buon personaggio, e questo libro ci riesce. Ma non è il tipo di lettura che cerco io, ne ho letti tanti di libri così e mi sono un po’ scocciata perché sono tutti uguali e mancano dell’approfondimento storico che cerco in un libro del genere. Ma non mancherò di leggere altro dello scrittore, forse leggerò proprio Lovers, perché è di fatto la stessa trama ma ambientata in Francia in un altro periodo storico!

Una vita come tante – Hanya Yanagihara

Risultati immagini per una vita come tanteAvevo pensato di incominciare la recensione di questo romanzo con una polemica incisiva sulla foto in copertina e sulla traduzione del titolo nella versione italiana. Quando però ho chiuso il libro, poco dopo aver letto l’ultima pagina, mi sono resa conto che non era poi così importante polemizzare. Non era poi così importante stare a dirvi quanto non mi piaccia questa foto o quanto trovi inadeguata la traduzione del titolo originario A little life (Una vita misera)… perché anche cambiando tutte queste cose, resta comunque un romanzo di una immensità incredibile.

Mi ha ricordato tantissimo le atmosfere prolungate, oniriche e disperate del Cardellino, al quale accosto Una vita come tante quale una delle letture migliori del 2019 e di tutti i tempi, per quanto mi riguarda.

Difficile narrare la storia, non solo per via della paura di fare spoiler, ma perché trattandosi del resoconto di una vita umana, scoperta e disvelata lentamente nel corso degli anni, farne un breve riassunto non darebbe giustizia a questa storia. Ciò che posso dire è che il protagonista di questo romanzo si chiama Jude, ed è un ragazzo molto fragile e malato, che la vita ha spezzato e ricucito più volte. E’ la sua la vita come tante, titolo che non potrebbe essere più ironico di così, visto che il numero di eventi che lo hanno visto protagonista in senso drammatico è così elevato talvolta da far domandare se sia davvero possibile che un essere umano possa soffrire a tal punto nella vita.

So che questa è la domanda o l’affermazione conclusiva di molte persone che hanno letto questo romanzo e non lo hanno apprezzato. La verità è che, sì, è possibile soffrire tanto, quando anche i piccoli avvenimenti contribuiscono a spezzare una persona già infragilita dalla vita, dalla biologia e da una percezione della vita sbagliata.

Jude è circondato di amici e non gli manca un lavoro redditizio, è avvocato infatti. I suoi amici si prendono cura di lui in tutti i modi, specialmente Willem, quello che tra i suoi amici più è in grado di stargli vicino nel silenzio, senza fare le tanto odiate domande, senza scavare con invadenza nella sua vita. Apprezzandolo e amandolo a prescindere da ciò che si porta dentro.

Ma il lettore brama di sapere. Pagina dopo pagina, il mistero sulla vita di questo ragazzo venuto dal nulla si infittisce. Si infittiscono i pensieri sulla sua persona, le analisi sulla sua psiche, sul suo modo di concepire i rapporti, sul suo modo di farsi del male per punirsi. Entriamo in punta di piedi e a ritroso nel tempo nella vita di una persona che, da essere estranea e fatta di carta, ci diventa viva e umana, a tal punto da percepirla come fosse un nostro amico, un parente caro a cui dobbiamo dare protezione a tutti i costi.

Sullo sfondo di una New York molto aperta mentalmente, sessualmente e attiva dal punto di vista culturale, assistiamo al dramma di un’esistenza che non ha né spazio né tempo, che ti divora, pagina dopo pagina, senza mai stancare, ma scavandoti nel cuore un solco, ancor più profondo per chi, tra voi lettori, in genere prova empatia anche per le foglie che cadono dall’albero (come accade a chi scrive).

La vita di Jude sarà pure una vita come tante, ma la sua specialità sta nel modo in cui la Y. ce la racconta, entrando e uscendo dal cuore, dalla mente, dal sangue e dai ricordi di questa persona – e di chi lo circonda e ama – con assoluta disinvoltura, mostrandoci scene e retroscene di eventi intrecciati in un continuo dialogo tra passato e presente. Perché se c’è una cosa che Una vita come tante insegna, è che il passato ha sempre delle grandissime ripercussioni sulla nostra vita, che lo si voglia o no, che lo si capisca o no. E non è sempre facile affrontarlo, specie quando divora – col suo ritorno circolare – anche il presente che meriterebbe di essere vissuto con più ardore e fiducia.

Un inno alla vita e al godere della vita, un inno all’amicizia, un monito a esserci nel presente, in attesa che il futuro venga a fare il suo corso, unico portatore dell’ultima verità che può – in definitiva – cancellare un passato mostruoso e divoratore.

Game of Thrones: il fallimento di uno scrittore

DSC_1484.jpgIn questi giorni, ho sentito le molte opinioni contrastanti sull’andamento dell’ultima stagione di GOT.

LA terza puntata ha aperto un baratro incolmabile, ora che siamo alla fine dei giochi, tra chi ancora riesce a reggere le svolte del telefilm e chi invece trova tutte le incongruenze inaccettabili. Per me è difficile stabilire chi abbia ragione. Ho guardato la terza puntata con occhio privo di aspettative e per questo l’ho apprezzata, pur sentendo anche io una specie di vuoto incolmato alla morte repentina del Night King. Da amante di Cersei da sempre, non l’ho vista come una gran perdita. Io aspetto di sapere cosa accadrà con lei e cosa avrà in mente quello che è uno dei personaggi migliori della serie.

Ma la mia riflessione di fastidio esiste, e non è rivolta al telefilm.

Perché mettere mano, da registi e sceneggiatori, alla storia di GOT deve essere stato difficilissimo. Ancor più difficile adesso, che non esiste un blocco di testo da studiare per poter tirare fuori il meglio. Non esistono, ancora, e forse non esisteranno mai, gli ultimi libri che avrebbero collimato con questa parte della narrazione. Registi e sceneggiatori hanno cercato di abbozzare, di sintetizzare, e c’è sicuramente la supervisione di Martin in tutto questo.

Ma non ci sono i libri. Ed è questo il problema. Per quanto riguarda il mio percorso da lettrice, definisco questo fenomeno il fallimento dello scrittore.

Costruire una trilogia, una quadrilogia e oltre, è un lavoro difficilissimo. Non si tratta solo di impostare una storia, una trama, linee temporali e geografiche che si intrecciano, personaggi che si amano e odiano, che desiderano e falliscono. Si tratta di costruire un impero di vite che necessita di un’attenzione strategica per giungere ad un finale coerente e credibile. Scrivere una storia in più libri è come andar in guerra: è una strategia a lungo termine.

Pensate, se volete capire quanto lungo sia questo termine, che chi ha iniziato a leggere il romanzo all’alba dell’uscita del primo volume, lo ha comprato nel 1996 negli USA. Chi ha iniziato con quel libro ad appassionarsi a questa saga, attendeva un finale da più di 20 anni. Io ho iniziato a leggerlo subito dopo l’inizio del telefilm, era il 2011 se non ricordo male e il mio ragazzo acquistò il cofanetto più il volume unico di Dance with Dragons. E da allora, più nulla.

Due libri attesi dal mondo di lettori intero. Due libri che, lo sappiamo bene, non arriveranno. Se ne arriverà anche uno solo sarò molto sorpresa e pronta a ricredermi. Ma non posso davvero pensare che uno scrittore come Martin possa procrastinare una storia, se quella storia è stata ben strategizzata e strutturata sin dall’inizio.

Non è andata così. Martin ha cambiato la storia in corso d’opera. Ciò che lui aveva in mente di scrivere quando lavorava al primo volume, nel lontano 1991, non esiste più. La sua fantasia ha galoppato, forse anche la voglia di galoppare il successo economico ha avuto la sua in questo. E la storia gli è sfuggita di mano. Senza una strategia di base su come continuarla e soprattutto chiuderla, la storia si è interrotta e il magro compito di chiuderla è andato in mano a persone che sono esperte di scene in video, di effetti speciali, di fotografia… ma non di scrittura.

La scrittura vera, quella intensa, contorta eppure limpida, era di Martin. Era solo sua e non può essere di nessuno, nemmeno dei migliori registi. Lo scrittore ha la penna, i registi la videocamera. E rendetevi conto, quando criticate l’ultima stagione, che immensa difficoltà ci sia stata a rendere visivo qualcosa che non esiste e non sta esistendo. Che se esiste, è solo nella mente di Martin. E non su carta, non su libri, non dentro di noi come lo è il resto della storia che abbiamo letto sino ad ora.

Martin ha fallito, per me. Ha distrutto la sua storia stupenda. Che era un fantasy ma non solo, era un gioco simmetrico, una sfida, un mondo in cui non c’è solo bene o male, ma realtà. Non eroi e mostri, ma persone vere, con desideri infranti, passioni e sogni impossibili. Il mondo da lui creato eravamo tutti noi ed è per questo che lo abbiamo amato e odiato.

Martin ha fallito, abbandonando i suoi personaggi, il suo mondo. Il mostro finale, il cattivo non era il Night King. Ma lo scrittore stesso, che li ha lasciati appesi, in tanti, a fili di una storia che non finisce perché chi ha letto i libri non può accontentarsi del telefilm, e chi ha guardato il telefilm si è accorto, nonostante non abbia letto i libri, che sotto lo strato di immagini delle ultime stagioni non c’è la terra, non c’è il sangue e la vita che c’erano al di sotto delle prime stagioni.

Martin ha tradito i lettori, ed  è una cosa che come lettrice non gli perdono. Quando si scrive una saga, la si deve pianificare in tutto e per tutto. Se qualche regola esiste nella scrittura, questa è una di quelle.  Penso a Nevernight, con lo scrittore alacremente al lavoro per l’ultima parte della trilogia. Ha detto che uscirà a settembre 2019 e così sarà. Perché i lettori non si prendono in giro. La storia di uno scrittore non esisterebbe nella realtà, se nessuno la leggesse. Siamo noi a darle vita.

Penso a Divergent, a Harry Potter, al signore degli anelli, a the witcher. Sono tutte saghe complete. Di alcune esiste film, presto di Witcher ci sarà il telefilm su netflix che attendo da tanto. Ma tutto è venuto non prima che il romanzo fosse quanto meno terminato nella mente dello scrittore. Ma cos’è questo se non inseguire il potere del soldo a scapito del potere della fantasia sulla nostra realtà?

Se anche domani uscisse il penultimo libro, se anche lo leggessimo – e probabilmente lo faremmo, se non altro per disperazione, per dimenticare le incongruenze dell’ultima stagione – cosa ne sarebbe comunque di questa storia dentro di noi? Era così necessario, così importante per lui, dare adito a una produzione televisiva ancor prima di concludere il romanzo? Quale brama aveva di accettare di far iniziare questo progetto, mentre il suo non era ancora lontanamente terminato?

Tutti pensavamo che i due libri sarebbero usciti in tempo, prima della fine della serie. E invece no. Perché non vi era – semplicemente – pianificazione.

Spreco di parole, spreco di libri, spreco di edizioni e di ristampe e copertine diverse e libri illustrati e merchandising e magliette e tazze, cuscini e cosplay… e non abbiamo uno straccio di finale!

E sappiamo già che quello che avremo dal telefilm, per quanto sudato, riuscito, non sarà che una squallida parte di quello che avremmo potuto vedere se i libri fossero stati scritti. La fantasia richiede nutrimento. E Martin ce lo ha negato. Forse è un uomo in crisi, forse vive nell’incubo di ogni scrittore, il blocco famigerato. Forse si è dato ad altro, come ha fatto del resto anche un’altra artista alla quale non ho perdonato di non aver dato un finale alla sua storia. Mi riferisco a Nana di Ai Yazawa.

Speculazioni e voci pretendono di darci informazioni concrete su quanto accade nella vita di uno scrittore, ma so per certo che quando una persona non riesce a finire una cosa, un progetto, è perché ha perso lo slancio iniziale. Perché l’entusiasmo iniziale si è svuotato, a causa di eventi imprevisti durante il corso dei lavori. Ma cosa c’è di più entusiasmante al mondo del sapere che milioni di persone vivono per sapere come GOT andrà DAVVERO A FINIRE? Nel libro, non nella serie che ormai è finita già da tempo. Un uomo solo tiene in pugno la fantasia di milioni di persone sulla Terra. E non sa che farsene

Vita Nostra (Metamorfosi #1) – Marina and Sergey Dyachenko

Risultati immagini per vita nostraMi trovo ad affrontare un problema. Parlare di un libro che sicuramente non ha letto nessuno che leggerà questo blog. Le circostanze che rendono questo libro poco noto quanto di difficile lettura sono molte e vanno messe a necessaria premessa della mia recensione.

Vita Nostra è il primo volume di una trilogia fantascientifica russa. Gli autori, i coniugi Dyachenko, sono riusciti a trovare un traduttore valido per farselo tradurre in lingua inglese. Ergo, adesso è possibile leggere il primo volume tradotto, mentre per gli altri sarà necessario attendere. Purtroppo non so quando, ma già il pensiero di aver concluso un romanzo proprio ieri notte, sapendo di non poterlo continuare, a me sfianca non poco. Quando ho iniziato la lettura, credevo che fossero stati tradotti anche gli altri tre.
Mi sbagliavo.

Grossolani errori da lettrice di trilogie a parte, credo di aver semplicemente trovato, e siamo solo a febbraio, il libro più bello dell’anno 2019. Premessa la mia nota attrazione per il genere fantascientifico e per i romanzi russi, non ho faticato a pensare che la lettura di Vita Nostra mi avrebbe portata su lidi prediletti. Ma non immaginavo a tal punto!

E ora? Come ve lo racconto? Come, senza spoiler? Come, senza negarvi il piacere della confusione in cui si naviga, ciechi e incoscienti, per tutto il tempo della lettura? Come, se so che ancora per molto tempo questo libro resterà non letto, dato che ho i miei dubbi che verrà tradotto in italiano?

Ci provo.

La protagonista di questa storia è una ragazzina di diciotto anni di nome Sasha Samokhina. La ragazza, che a breve dovrà decidere il suo percorso universitario, con una spiccata preferenza per la Filologia – dettaglio all’inizio ininfluente, che in realtà adesso mi appare come fondamentale – va in vacanza al mare con sua mamma, unico membro presente della sua famiglia. In questo luogo, viene intercettata da un uomo misterioso, ambiguo e determinato, che l’avvicina con premesse allucinanti: Sasha dovrà fare per lui una serie di esercizi di disciplina sino a nuovo ordine, e se mancherà a questi esercizi, lui provocherà dolore e sofferenza a lei e intorno a lei, ai membri della sua famiglia.

Sasha, confusa e terrorizzata, accetta di sottoporsi a questi esercizi, terorizzata dal pensiero di cosa potrà accaderle, mutando drasticamente le abitudini della sua vita e rendendosi conto che, per davvero quando sgarra, qualcosa di brutto accade intorno a lei (il nuovo compagno della madre, Valentin, ha un principio di infarto).
Terrorizzata al pensiero delle conseguenze della sua mancata disciplina, Sasha accetta l’imposizione dell’uomo misterioso di non seguire il corso di studi da lei scelto, ma di iscriversi presso una misteriosa università nella città sconosciuta di Torpa e le verrà chiaramente detto che non potrà rifiutarsi in alcun modo, esattamente come lo era stato per gli esercizi di disciplina.

Sottoposta a una tale schiavitù e manipolazione della sua persona, al limite del dittatoriale (cosa che in un romanzo russo ha sempre quella carica di terrore buio di un certo livello), Sasha si trasferisce a Torpa, paesello sperduto nel nulla e nella neve, dove intraprende un corso di studi… molto particolare.

Non si tratta di una accademia militare (vedi Poppy War), né di magia (vedi Harry Potter), ma di un vero e proprio programma di decostruzione mentale dell’essere umano, con ritmi pesantissimi da seguire (durata di 5 anni), forte propensione alla disciplina e forte sensi di colpa instillati negli studenti che, se non diligenti, si vedranno puniti sempre nell’ambito personale, vedendo sparire e decedere i propri cari o persone amate.

Sasha si rende conto ben presto di essere stata trascinata e costretta a questa vita  senza possibilità di scelta, esattamente come lo è stato per gli altri studenti del suo anno. Si accorge, per altro, che gli studenti più grandi, quelli del secondo e terzo anno, sono delle persone assurde, dei veri freak e che il motivo di questa trasformazione sta proprio nella tipologia del corso di studi. Inoltre, degli studenti del quarto e del quinto anno non vi è alcuna traccia in questa scuola…

Agli studenti è noto solo che alla fine del terzo anno saranno sottoposti a un importante esame intermedio che deciderà il loro futuro percorso all’interno di questa scuola. E di questo esame, temutissimo, nulla si conosce.

Difficile andare oltre queste premesse, il resto è tutto da scoprire, ma se quello che vi ho raccontato vi ha un po’ inquietati beh, sappiate che non è niente rispetto a ciò che accade per circa 500 pagine di romanzo. Questo era solo l’inizio!

Sasha è un personaggio femminile molto forte e determinato. Estremamente sensibile nei confronti della sua famiglia, legata ai suoi ricordi, si trova calata in un ambiente estremo e crudele dal punto di vista mentale, che la porta a subire una trasformazione emotiva senza precedenti. Il romanzo è un complesso lavoro filosofico, linguistico e scientifico, che ne rende la lettura complessa e a tratti difficile, come se il lettore stesso si trovasse all’interno dell’università frequentata dalla ragazza.

Il titolo fa riferimento a un verso del Gaudeamus, l’inno della scuola, che recita appunto Vita Nostra Brevis Est, ed è il fulcro attorno al quale ruota l’essenza di questa storia. Una storia che ti cala in un mare oscuro di domande su cosa voglia dire essere umani e su cosa sia la personalità, la memoria, la vita stessa. Un romanzo che non è solo storia avvincente, ma la sfida per il lettore di sapersi mettere in discussione fino a distruggersi interiormente. Vi dico solo che dopo aver letto l’ultima pagina – dove NESSUNA risposta viene data, ma solo ulteriori domande – ho avuto annichilenti incubi. Leggere questo romanzo mette in moto dei processi arcani e oscuri, qualcosa di esoterico e di inafferrabile che finisce per decostruire anche la mente del lettore e portarla su piani e livelli impensabili. Ho riletto il finale del primo volume almeno quattro volte e ancora adesso non credo di aver davvero compreso la portata di ciò che è accaduto.

Adoro i finali aperti, ma questo… è stato veramente troppo!

Io non so cosa questi due scrittori avessero in mente quando hanno scritto una storia simile, ma a tratti ho avuto quasi paura di essere io stesso trasformata. Di non essere solo lettrice distaccata, ma di subire la lettura di questo romanzo senza poter far niente per fermarmi.

Certamente leggerò il seguito così come è certo che dovrò rileggere questa storia almeno una seconda volta, perché molto mi è rimasto oscuro di quanto letto, complice un inglese difficilissimo di livello alto e una presenza di disquisizioni filosofiche – di cui, almeno a scuola, non sono stata mai molto fan – ma che inevitabilmente mi hanno affascinata quando applicate all’evoluzione della protagonista.

La lettura di questo romanzo è un segreto che non può essere nascosto a lungo, ma forse dovrebbe.

E io vorrei sapere il russo per sapere cosa succede negli altri due volumi, maledizione! Fate presto con questa traduzione!

 

IL Circo della Notte – Erin Morgersten

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Ok. Faccio un grosso respiro. Mi preparo psicologicamente. Mani alla tastiera, per raccontarvi il Circo della Notte di Erin Morgersten. Per raccontarlo soprattutto a chi ancora non abbia avuto la fortuna di imbattersi in una simile lettura. Ormai pubblicato già da molti anni, adorato da molti dei lettori di cui amo seguire video e recensioni, ebbi la fortuna di trovarlo in un Charity Shop a Portsmouth. Il volume, che vedete nella mia foto qui in alto, era completamente nuovo, mai aperto e probabilmente mai letto. Stranissimo, pensai. Tutti ne parlano un gran bene e poi c’è questa copertina… bianco e rosso su nero, così misteriosa, e le due silhouette che si guardano, tra sfida e sorpresa… Questo libro ha qualcosa da dire, da raccontare. Così lo acquistai, per pochi centesimi.

Sono passati due anni dall’acquisto e poi è arrivato Natale, e le feste di Capondanno del 2019, e quella mia solita voglia immensa di evadere dalla odiata routine dicembrina. Ho iniziato a leggerlo ed è stato come fare un viaggio bellissimo in un altro mondo.

Il Circo della Notte è una invenzione magica, colma di illusioni e misteri, il teatro perfetto in cui i protagonisti, la bellissima Celia e il misterioso Marco ingaggiano una sfida voluta non da loro, ma da un destino che li ha scelti – forzati direi di più – a farsi antagonisti di un duello magico che dura da tantissimo tempo e che non si è mai esaurito, che vede nel loro incontro/scontro l’ennesima partita di una lotta infinita.

Celia padroneggia la magia in maniera sublime. Trasforma tessuti, colori, forme, animali ed è in grado di donare agli spettatori affascinati le immagini dei loro sogni e incubi. Marco, più razionale e  meditativo, studia la magia ancestrale, quella oscura, fatta di vincoli e simboli neri, che lega persone agli oggetti, che muove il tempo e lo spazio. Assieme, avvinti dalla magia del Circo della Notte che viaggia in giro per le grandi capitali del mondo, Londra, Parigi, NY… vivranno questa splendida avventura ricca di fascino e di mistero. Ma attorno ai due personaggi principali, si muovono altre figure non meno cariche di simbolismo e di significato, pronte ad affacciarsi al fianco di uno o dell’altro protagonista, in questa sfida dai misteriosi contorni e dall’ancor più misterioso finale.

Il Circo della Notte è magia, è sfida. Ma è anche amore. Raccontato con delicatezza, con passione e profondo dolore. E’ un romanzo fantasy, per un target decisamente non adolescenziale, tutt’altro. Molte sono le sequenze oscure, sanguinolente e violente del romanzo. La Morgerstern non ci risparmia nessuno dei sacrifici sui quali il Circo della Notte fonda le proprie basi oscure e questi sacrifici richiedono anche un tributo di sangue.

Il Circo della Notte, ancora, mentre ne insegui la topografia in un tempo non sempre regolare (occhio alle date in cima ai capitoli, nascondono sorprese!), si stratifica di significati via via più oscuri. E’ la storia di Celia e Marco, ma anche la storia di un sogno, la storia di un cuore palpitante e scisso, che cerca di fondersi e tornare all’unità. Il mistero cala sulla figura della scrittrice che, per aver creato un simile mondo così originale e simmetrico, deve portarsi dentro una storia non da poco, una fantasia spiccata.

Scopro così che la Morgersten è anche pittrice. Tutto si spiega. Il romanzo non è raccontato: è dipinto. I capitoli si snodano, brevi e intensi, come tanti dipinti, scene visual, che giocano con i colori del bianco e del nero, con gusto pittorico e diorama di personaggi, di statue di marmo, di cieli oscuri e tendoni da circo che sovrastano gli spettatori. E anche il lettore. Decisamente, non il libro giusto per chi non ama le descrizioni, perché tutto si basa su esse, nel Circo della Notte.
Descrizioni in luogo di personaggi e azioni, vivide, cangianti. E una trama non banale, mai scontata e con rivolgimenti e colpi di scena mozzafiato.

C’è poco da fare. Bisogna acquistare un biglietto per questo Circo ed entrare quanto prima. Perdersi in questa lettura e prepararsi al profondo senso di solitudine e abbandono, una volta usciti dal Circo della Notte per l’ultima volta.

AND I DARKEN – KIERSTEN WHITE

Risultati immagini per and i darkenDopo aver letto The Poppy War, sapevo che sarebbe stata dura prendere in mano un altro libro e che qualsiasi cosa avrei scelto, avrebbe inevitabilmente risentito del vertiginoso crollo dalle altezze di quel capolavoro che ho tanto amato.
Ho iniziato, dunque, The Conqueror’s Saga di Kiersten White, che comprende i seguenti volumi: And I Darken, Now I Rise, Bright We Burn.

In italiano, il primo volume è stato tradotto col titolo Io sono Buio. Ammetto che era davvero difficile rendere in traduzione il titolo inglese che, adesso che ho terminato, sta a significare qualcosa del tipo “ed è così che io passo al lato oscuro”, nel senso di “incattivirsi” o passare ad azioni negative. Io sono Buio non mi pare la migliore delle traduzione,  ma del resto non ho nulla di meglio da proporre e usare il titolo “Vado al lato Oscuro”, avrebbe creato qualche conflitto di interessi con un’altra ben nota saga!

Detto questo, la trilogia non è un fantasy. Si tratta più della rielaborazione in chiave fantastica, totalmente rivisitata in termini emozionali, della vicenda dei fratelli Radu e Vlad Dracul. Vi dice qualcosa? Esatto. Si fa riferimento a quel segmento storico della Valacchia in cui è comparso il personaggio, poi diventato mito popolare e cinematografico, di Vlad l’Impalatore. Vlad Dracul, che ha poi ispirato la storia del conte Dracula. Dracul infatti, nella lingua rumena, significa drago – lo stemma che fu proprio della famiglia dei Dragwlya.

La scrittrice, quindi, riprende per filo e per segno gli eventi storici di cui i due fratelli si sono fatti protagonisti, il loro incontro – scontro con l’Impero Ottomano di Maometto II e regala una sua rivisitazione romanzata della vicenda, aggiungendo ai protagonisti realmente esistiti, personaggi immaginari e vicende rivisitate, sulla riga di quelle reali.

La più grande prova di rivisitazione della storia ce la da con una trovata straordinaria – nel bene o nel male, per alcuni – cioè trasformare Vlad l’Impalatore in una donna. Per farlo, però, la scrittrice ha lasciato integro il nome del personaggio (Ladislav), dando alla protagonista il nome diminuitivo di Lada. L’incongruenza dei nomi ha scatenato non poche polemiche per i lettori rumeni, sia per l’evidente violazione della storia del personaggio, in Romania molto famoso ancora adesso, sia perché la protagonista avrebbe dovuto chiamarsi al più Vladislava, ricevendo poi il nominativo Vlada, e non Lada.
Tra queste e altre polemiche sul modo in cui la scrittrice ha trattato le descrizioni inerenti la religione musulmana e i rapporti con gli Ottomani, la trilogia è stata ben presto bersagliata e criticata per essere stata molto pretenziosa. Per quell’attitudine che gli scrittori americani hanno di impadronirsi di eventi accaduti in Europa, per poi rimaneggiarli in modo improbabile. Sebbene io non mi senta coinvolta personalmente dalla cosa, in quanto non conoscevo nel dettaglio le vicende di Vlad e Radu prima di informarmi pro lettura, capisco il fastidio provato: lo stesso che ho provato per esempio leggendo gli stereotipi inerenti l’Italia nel recente Vox.

Posta questa rilevante questione sulla violazione di un pezzo di storia della Romania da parte di un romanzo americano, sorrido al pensiero di leggere una storia che possa parlare di RomolA e Remo e sento di comprendere come sarà risultato leggere questo abominio per i lettori vicini alla cultura rumena.

Escluso – se si può escluderlo – questo grosso elemento a sfavore della storia, la lettura a me è piaciuta moltissimo. I personaggi? Li ho semplicemente adorati . I due fratelli, diversi come la notte e il giorno, il loro rapporto di odio amore, la loro solitudine, l’abbandono. Tutti discorsi che a me attirano come la luce fa con la falena e che fanno parte, di fatto, del romanzo che sto scrivendo. Mi è molto piaciuto leggere i loro discorsi, i loro pensieri. Radu, bello ma debole e Lada, incontrastata, forte, con grosse difficoltà ad accettare la sua femminilità e la paura enorme di perdere la libertà, sacrificandola a un uomo. In aggiunta, il romanzo prende piede con la storia politica degli Ottomani e il rapporto dei due fratelli con Maometto II, che dai due fratelli è irrimediabilmente attratto.

Molta politica dunque, molti discorsi, narrazioni e descrizioni di natura militare, la qual cosa mi ha indubbiamente soddisfatta. Una lettura non facilissima, secondo me, perché la scrittrice mette in mostra una prosa densissima. A tratti veloce e spedita, specie nelle azioni veramente coinvolgenti, a tratti lenta e malinconica, specie quando i personaggi principali si lasciano andare a dubbi, ricordi e pensieri oscuri.
La definirei una storia d’amore? Mah, l’amore in questo libro è il nemico, secondo me. E come tale viene combattuto con tutte le armi possibili. Manipolazioni, scelte politiche, allontanamenti, dolore, menzogne. In questo è sicuramente un romanzo Oscuro, come prometteva il titolo e i personaggi ce la mettono tutta per distruggere, loro malgrado, tutto ciò che amano, mettendo a dura prova più di una volta il loro rapporto.

Mi riservo di dare più commenti sulla trama con la lettura dei prossimi due volumi, ma per il momento ne sono molto soddisfatta. Forse, se la scrittrice avesse creato un mondo di sana pianta in cui raccontare la medesima storia senza scomodare quella rumena, si sarebbe guadagnata un plauso maggiore, perché la vicenda ha tutti gli elementi per risultare affascinante e accattivante, anche senza dover necessariamente pensare agli eventi storici realmente accaduti. Proprio come era stato con Poppy War, dove si parla di eventi incorsi in Cina, ma il mondo è totalmente inventato, i nomi cambiati, creando così la giusta distanza dagli eventi storici che portano, inevitabilmente, con sé il peso delle azioni umane.

Ma evidentemente, la scrittrice è molto attratta da questa storia, dimostra di averla approfondita molto anche se è, culturalmente, distante da essa e forse non è riuscita a cogliere appieno il significato di certi eventi, come è normale che sia, supponendo, per dire, che non abbia vissuto in Romania e non abbia parlato con persone del luogo in merito alla vicenda. La sua biografia in rete non menziona nulla in merito!