Anna Maria Ortese è stata una scrittrice italiana del Novecento, vissuta tra il 1914 e il 1998. In questo arco di tempo, Ortese ha scritto moltissimi racconti, più di 200, un buon numero di romanzi e moltissimi articoli per i giornali. Di tutta questa produzione, alla memoria dei più fortunati forse resta la conoscenza del Mare non Bagna Napoli, libro del quale si antologizza spesso Un paio di occhiali, racconto tratto da questa raccolta.
E poi il silenzio.
Prendo e sfoglio le letterature che ho a casa, conservate negli anni di scuola e non trovo quasi nulla di lei. Il Baldi ne tace, nella sua bella carrellata di soli autori uomini, fatta eccezione per Elsa Morante e Sibilla Aleramo, ovviamente ricondotte a Dino Campana e Moravia.
Trovo qualcosa nella Scrittura e Interpretazione, freschissima antologia a cura di Luperini che credo sia adottata oggi nel liceo. Un breve trafiletto sciorina i titoli di alcune opere e la inserisce nel genere letterario del realismo magico assieme a Bontempelli. Una mia iscritta mi fa sapere che in un vecchio manuale di Luperini appariva però un invito alla lettura del Mare non bagna Napoli. Ma certo è che quando vi faccio questo nome, nulla vi viene in mente.
Vi dico Pirandello: penserete subito a maschere, umorismo, teatro; vi dico Dannunzio e penserete al Piacere, alla Duse, al rapporto con Mussolini, all’Alcyone; vi dico Montale, penserete subito agli Ossi di seppia, al Male di vivere, a Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, etc… E potrei andare avanti.
Ma quali sono i motivi della sua assenza dal canone? Quali i motivi per cui chi va a compilare le antologie da portare a scuola ancora oggi nel 2022 non trova interessante menzionare questa scrittrice? Così come altre? Perché la nostra memoria residua culturale italiana si fonda unicamente su scrittori di sesso maschile? La risposta, per quanto riguarda questa scrittrice, io credo risieda negli eventi della sua biografia e nel suo rapporto con gli intellettuali del suo tempo. Questo però non giustifica chi OGGI prepara le antologie quando la esclude.
Io vi parlo di Anna Maria Ortese, così come l’ho vissuta in questi mesi e per quella che è la mia percezione di lei. Perché io mi sono innamorata di lei e quando si ama qualcuno, se ne vuol parlare a tutti e raccontare quanto questo amore renda felici.
Questa donna è stata una scrittrice dalla vita molto difficile. Costante, come una mannaia sul suo collo, la sua solitudine e il suo disagio economico, la sua perenne ricerca di una sistemazione domestica per poter trovare la pace per scrivere, che era la cosa che sognava di più fare al mondo. Dal sud al nord d’Italia, passando per Parigi e anche Mosca, Ortese non si è mai fermata e ha sempre continuato a scrivere anche a fronte delle tante delusioni avute dal suo lavoro. Ortese piaceva agli editori, che spesso lei lasciava in attesa febbrile di opere promesse, ma non piaceva ai lettori. Non vendeva, o vendeva poco e i suoi libri restavano invenduti o finivano al macero.
Quindi, da un lato, doveva scrivere di più per guadagnare, dall’altro non riusciva a scrivere di più o a farsi piacere ciò che scriveva, perché non trovava mai la serenità interiore per dedicarsi alla sua attività. Costretta a chiedere soldi e ospitalità ad amici scrittori, a cambiare case in affitto, tra catapecchie pericolanti, rumori di grandi metropoli che le toglievano il sonno, come Milano, in affitto assieme alla sorella a Rapallo, dove concluse i suoi giorni… E nel cuore il desiderio di rivivere una Napoli, sua città del cuore, da cui si era sentita respinta.
Per giunta, quando scrive il Mare non bagna Napoli, tutto cambia per lei: gli intellettuali napoletani la ostracizzano per aver dipinto nel suo reportage una Napoli disagiata post guerra e una rappresentazione troppo cruda degli stessi artisti, come La Capria.
Scrive l’Iguana, ma il romanzo non viene capito.
Nel 1967 vince il premio Strega con Poveri e Semplici, romanzo di formazione che ovviamente non le piace affatto e che, pur essendo di altissimo livello rispetto a molti Strega odierni, per lei non era rappresentativo del suo lavoro, anzi rappresentava semmai un appiattimento del suo stile di scrittura.
È degli ultimi anni, un romanzo che ebbe successo Il cardillo addolorato.
Uno solo per lei è il pallino, il libo della vita, quello in cui da tutta sé stessa e al quale dedica un lavoro febbrile e lunghissimo di scrittura e rielaborazione. Ed è il libro con cui io l’ho conosciuta e su cui mi soffermo: il Porto di Toledo. È qui che io l’ho scoperta, qui che arriva la mia esperienza di lettura.
Entro al Mercatone e trovo, tra i libri usati, questo Adelphi di un azzurro intenso, dalla copertina misteriosa e al contempo preziosa… Costa 4 euro, non posso lasciarlo lì, gli Adelphi lo sappiamo tutti che costano un rene. E l’ho già dato per Vita e Destino.
È un libro di quasi 600 pagine che inizio a leggere ad assoluta scatola chiusa, senza più posarlo per il mese successivo, e che inizia così:
“Sono figlia di nessuno. Nel senso che la società, quando io nacqui non c’era, o non c’era per tutti I figli dell’uomo. E nascendo senza società o bontà io stessa, in certo senso non nacqui nemmeno, tutto ciò che vidi e seppi fu illusorio, come i sogni che all’alba svaniscono, e così fu per quelli che mi stavano intorno.”
Mi addentro nella storia incredibile di una ragazzina di nome Damasa Figuera, detta Masa o anche Asa, che racconta di essere a volte donna, a volte uomo. Damasa ha una vita interiore ricchissima e tutto quello che tocca col suo sguardo si trasforma in narrazione. Il suo sogno è quello di scoprire i segreti e le regole di quella che lei chiama Espressività: la scrittura. Vuole imparare a scrivere, è desiderosa di trasformare la sua vita in scrittura e di vivere per essa.
Non sapendo io nulla della scrittrice all’epoca, inizio a farmi non poche domande. Cosa sto leggendo esattamente? È chiaro che questo romanzo non è ambientato in un mondo reale. Si chiama Toledo, ma palesemente è ambientato nel sud Italia, i personaggi hanno strani nomi onomatopeici. Lei Asa o Masa, i genitori Apo e Apa, il fratello Raissa, la sorella Juana e il fratello Albe. C’è un uomo chiamato Maestro D’armi, il quale le insegna il mestiere di scrittura tramite uno scambio epistolare emozionante. Il grande amore, Lemano detto il Finlandese, figura tragica e crudele di questa storia, un uomo ribelle, cinico che si avventa su Damasa tra apparizioni fugaci e sparizioni sofferte. Eppure, non è un romanzo reale, non ci sono coordinate spazio-temporali: le uniche coordinate presenti sono quelle del cuore di questa bambina che racconta la sua infanzia e la drammatica perdita di essa a causa dell’arrivo della Tigre che divorerà tutto e porterà chi sopravvive nell’Era Successiva.
Inizio velatamente a farmi una idea di cosa stia davvero succedendo, di cosa sia la Tigre, di chi sia questo El Rey debolissimo e questo Don Juan appeso per i piedi affinchè i corvi possano divorarlo, ma non ne sono certa, i riferimenti storici – ripeto – sono assenti.
È la storia di Damasa. Damasa potrebbe essere chiunque, potrebbe essere personaggio fittizio, ma io sento che non lo è. Sento che nella narrazione fantastica e visionaria, la narratrice che è la stessa Damasa, sta lasciando a lettore più che una storia inventata. È una storia vera, ci sono cose vere lì sotto, c’è vero dolore. E con questi interrogativi, viaggio per quasi seicento pagine con lei, scoprendo non solo una storia di una poesia incredibile, delicata e struggente, ma soprattutto e qui arriva l’elemento per me importante – scritta in modo inaudito. Non ho mai letto niente di simile. Non ho mai letto nessuno usare l’italiano in questo modo.
Ci sono bravissimi scrittori nel Novecento che hanno fatto dell’italiano un laboratorio di esperimenti magistrali, come Gadda.
Ma qui siamo su un altro pianeta, un’altra dimensione. Il Porto di Toledo è scritto in modo sperimentale, in un italiano che spesso si priva volontariamente di regole sintattiche per cedere alla bellezza dei suoni. Più volte ho pensato: questo libro merita un audiolibro registrato da una bella voce perché non andrebbe solo letto, ma ascoltato.
Quando arrivo alla fine della storia, ormai profondamente colpita, con classico lutto del lettore che ci colpisce quando perdiamo il libro amato per giorni e giorni, mi metto in viaggio per sapere cosa c’è dietro questa storia.
Come prevedibile, Damasa è Anna Maria Ortese stessa, da ragazzina.
Il suo intento originario, quando prese a elaborare IPDT era quello di raccogliere i racconti più antichi, quelli dell’adolescenza, contenuti nella prima sezione di Angelici Dolori e le poesie, per creare una sezione di commenti inframezzati, per intenderci come fece Dante Alighieri con la Vita Nuova.
Si serve anche di un diario giovanile scritto prima di capire che sarebbe diventata scrittrice, quindi molto puro e libero da ogni vincolo letterario. Ma scrivendo, a poco a poco, il commento prende il sopravvento sui racconti e le liriche e la vicenda che ne emerge si sovrappone lentamente alla reale vicenda della sua infanzia dove, come ho detto, molti eventi sono accaduti, riscrivendo il passato con gli occhi della Ortese del futuro, in un dialogo continuo tra Anna e Damasa, che naturalmente si incontrano nelle memorie di questi ricordi toledani.
Qui Anna cede al realismo e si lascia prendere dall’immaginazione e dalla fantasia che rivive il tutto rendendo la realtà indistinguibile da un sogno.
Anna Maria Ortese odiava la realtà. Ne era offesa, ci dice lei, e non è che bruttura la realtà che alla fine non è nemmeno destinata a rimanere, ma a scomparire. Le cose reali si deteriorano, periscono, muoiono.
Anna Maria Ortese sceglie la memoria e la vivifica con l’immaginazione per poter affrontare una materia per lei dolorosissima, la perdita dell’infanzia, la morte del fratello, la guerra – la tigre – che causa la distruzione della sua casa.
La sua opera è una trasfigurazione fantastica della realtà rappresentata con reticolato simbolico, ci spiega il suo più famoso biografo, Luca Clerici.
Come fa Ortese a rievocare la memoria? Con i sensi. Tutte le scene sono prima mostrate al lettore con vista, olfatto, tatto, udito; poi con una riscrittura dei luoghi che sono tutti dei falsi geografici: Toledo, Via Toledo, Quartieri Spagnoli, Napoli; l’uso di una lingua che non esiste, uno spagnolese potremmo dire, dove parole come barrio, quiosco, despachos assumono significati simbolici per la scrittrice; una sintassi spesso franta e sperimentale in cui i personaggi dialoganti devono cedere al potere del silenzio e della paura di parlare, e quindi avremo dialoghi interrotti, parole non dette e solo accennate, suoni onomatopeici; così si esplica l’identità di Damasa Anna, frammentata e non compatta, come unica esperienza possibile di vita.
Sogno di Damasa è l’espressività, scrivere. Damasa però non realizza questo sogno. E Anna non la vede diversamente – in Corpo Celeste ci dice di aver fallito come scrittrice. Non ha fallito naturalmente, ma sin tanto che era in vita questa è purtroppo stata la sua percezione. Con questo romanzo Anna riuscì a essere avanguardistica, senza portare con sé i dettami tipici delle avanguardie – violenza, rifiuto della tradizione classica, rifiuto del recupero dell’umanità perduta,
Ed è per questo che mi sento di dire, senza vergogna, che IPDT è uno dei più bei libri del secondo Novecento italiano, la cui colpa è stata quella di essere pubblicato in un’epoca in cui la letteratura chiedeva piena adesione a quella realtà violenta che per Ortese era così offensiva e indigesta. E secondo me, non c’è niente di peggio per uno scrittore che non venire mai a sapere quanto la sua opera, in secoli futuri, potrà essere apprezzata, perché io credo che nella nostra condizione odierna la realtà sia anche ben peggiore di quella che visse lei.
Per questo, stavolta c’è molto bisogno di un’evasione che non sia fine a sé stessa, ma che ci porti a considerare il nostro mondo interiore allo stesso livello di quello esteriore, perché il rischio che abbiamo oggi è quello di perderci come individui, cancellati da una vita che sta diventando sempre più complessa e sempre più intricata.
Ortese sapeva, con la sua scrittura, come rallentare il tempo, portarlo a una dimensione intima e individuale e soprattutto sapeva come fare innamorare il lettore con le sue parole di mondi trasfigurati dove un qualsiasi oggetto, il muro, la casa, la stanza, le piume, la luna, o anche animali, come il puma, l’iguana, il gattino Lucino di In sonno e in veglia possono diventare oggetto di riflessione per mondi nuovi, mondi da sogno.
Leggendo Ortese mi sono ricordata di quelle sensazioni che provai quando lessi da bambina, in un misto di euforia e mistero del “che cosa sta succedendo qui?”, la Bella estate di Ray Bradbury, uno dei pochi romanzi che sento di poter accostare ai suoi.